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domenica, Ottobre 6, 2024

Direttiva sul reporting di sostenibilità: le aziende sono pronte?

La direttiva CSRD impone alle imprese di stilare dei report di sostenibilità: si tratta di una norma facoltativa, ma secondo gli esperti tutti avranno l’interesse a farlo sia per ottenere finanziamenti dalle banche sia per evitare danni di reputazione con i consumatori. C’è, però, chi ancora non è pronto

Tiziano Rugi
Tiziano Rugi
Giornalista, collaboratore di EconomiaCircolare.com, si è occupato per anni di cronaca locale per il quotidiano Il Tirreno Ha collaborato con La Repubblica, l’agenzia stampa Adnkronos e la rivista musicale Il Mucchio Selvaggio. Attualmente scrive per il blog minima&moralia, dove si occupa di recensioni di libri. Ha collaborato con la casa editrice il Saggiatore e con Round Robin editrice, per la quale ha scritto il libro "Bergamo anno zero"

Prosegue l’iter della direttiva sul reporting di sostenibilità aziendale della Commissione europea, nota anche con l’acronimo CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), e adottata ufficialmente nel 2022. È una delle misure con cui Bruxelles vuole sviluppare l’impalcatura della finanza sostenibile. Mentre la tassonomia green si occupa dei principi fondamentali su cosa sia verde e sostenibile, il regolamento SFDR dell’informativa di sostenibilità nel settore dei servizi finanziari, la direttiva CSRD riguarda il mondo delle imprese.

Ha lo scopo di fornire agli investitori un quadro più completo delle performance di sostenibilità delle aziende rispetto a quanto faceva la direttiva NFRD, ampliandone il campo di applicazione fino a 50mila aziende europee, comprese le piccole e medie imprese. “Le nuove imprese devono ragionare adesso con un approccio olistico alla sostenibilità tenendo conto delle loro performance in relazione agli impatti ambientali, ma anche di quelli sociali e di governance legati alla propria attività”, spiega Alessandro Asmundo, policy officer del Forum per la Finanza Sostenibile.

C’è una precisa tabella di marcia stabilita dalla Commissione europea: lo stesso obbligo di redigere e rendere pubblico il bilancio di sostenibilità entrerà in vigore in fasi successive dal 2024 al 2028 e sarà esteso via via a un numero crescente di imprese, fino a raggiungere tutte le pmi che rispettano i requisiti individuati da Bruxelles. Ciò significa che già dal 2023 alcune aziende dovranno avviare la raccolta dei dati, monitorare le prestazioni e sviluppare le strategie, ad esempio nel campo dell’economia circolare.

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Le aziende sono davvero pronte?

Nei mesi scorsi la direttiva è stato oggetto di preoccupazione nel mondo dell’industria. Le aziende sono davvero pronte? Sanno cosa stabilisce Bruxelles? Nelle prime indagini preliminari, erano ben poche le imprese pronte a rispettare le nuove previsioni Ue. “Sicuramente la direttiva CSRD richiede un cambiamento di approccio strutturale nei report di sostenibilità, che diventano qualcosa di materiale, strettamente legato alla gestione finanziaria dell’azienda”, premette Asmundo.

“La sfida non è da poco per molte pmi”, ammette Asmundo. “La prima cosa da fare, per loro, sarà partire dall’analisi del gap tra la situazione attuale e i nuovi standard di reporting richiesti dalla CSRD e poi individuare i temi rilevanti per ogni impresa su cui fare il reporting e quali rischi e opportunità comporta lo stesso report di sostenibilità. Dopodiché, verificare di avere infrastrutture adeguate di raccolta e gestione dei dati per misurare e monitorare gli impatti della loro attività sull’ambiente e, infine, stabilire strategie su temi concreti come contrasto al cambiamento climatico e lo sviluppo dell’economia circolare”, spiega ancora l’esperto.

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Quali informazioni divulgare nei report di sostenibilità

Nel concreto, la domanda di molti imprenditori è: quali dati vanno comunicati? “I dati variano a seconda dell’azienda coinvolta e gli ambiti da esse individuati come rilevanti per la propria attività. Ci sono standard trasversali sulla sostenibilità in generale e poi degli standard specifici, per esempio per quanto riguarda la circolarità dell’azienda e, infine, in un secondo momento saranno introdotti standard settoriali”, spiega Asmundo prima di elencare quali saranno le informazioni da comunicare.

Il primo insieme di dati riguarda la rendicontazione delle politiche dell’azienda in merito alla gestione degli impatti ambientali dell’impresa, ad esempio l’effetto delle emissioni dei processi produttivi sulla qualità dell’aria, il consumo di risorse idriche e di risorse in generale, con una descrizione dell’afflusso e deflusso di materie prime, materie prime seconde e prodotti finali immessi sul mercato, per avere un quadro generale della catena del valore dell’azienda e, infine, la rendicontazione delle misure adottate dalle imprese in relazione a obiettivi ambientali come il raggiungimento della piena circolarità del business e la lotta al cambiamento climatico.

Questo si inserisce in un report più ampio alla cui base, come spiega Stefano Battiston, professore di Finanza sostenibile all’università di Zurigo e all’università Ca’ Foscari di Venezia, sta il concetto della doppia materialità. “Da un lato l’obiettivo è di censire e tracciare l’impatto delle attività economiche su ambiente e società, dall’altro misurare quale impatto i rischi ambientali e il tentativo di arginarli possono avere sulle attività economiche delle aziende. Ad esempio – prosegue Battiston – il rischio di siccità ha impatto sulle aziende che producono riso in Italia. Allo stesso tempo, un’azienda che coltivi riso senza adattarsi, ha un impatto negativo sull’ambiente e la sostenibilità, specie se opera in zone dove la mancanza di acqua sta diventando cronica per via del cambiamento climatico”.

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Soglie di sostenibilità e sanzioni

I problemi, per Battiston, arriveranno quando ci sarà bisogno di andare nel dettaglio per individuare le soglie di sostenibilità. “A differenza della tassonomia, non c’è nella direttiva CSRD una descrizione dettagliata dei criteri con cui misurare l’impatto sull’ambiente e sulla società”, spiega l’esperto. Probabilmente, prosegue il professore di Finanza sostenibile, l’approccio di Bruxelles sarà lo stesso di altre normative simili come il Regolamento SFDR, in cui la Commissione è intervenuta nel tempo con chiarimenti più dettagliati.

Il paragone con la tassonomia per Battiston è oggetto però anche di preoccupazione. “Nel panorama internazionale su sostenibilità la normativa della tassonomia è tra le più avanzate nel mondo. Tuttavia, il ‘blitz’ che ha portato a includere nella lista delle attività sostenibili (anche se sotto alcuni criteri) energia nucleare e gas fossile ha sacrificato la coerenza scientifica sui criteri di cosa sia sostenibile sull’altare di calcoli politici di breve termine. E quindi – prosegue il ragionamento – problemi simili potrebbero emergere quando si scenderà più nel dettaglio in prossimità delle scadenze per l’approvazione”. Non bisogna dimenticare, inoltre, che essendo una direttiva verrà recepita e attuata dai singoli Stati membri con alcuni margini di interpretazione nell’applicazione delle norme, specie in Paesi con forti gruppi di interesse contrari alle norme sulla sostenibilità.

Un esempio di come la direttiva sia in divenire è il caso delle eventuali sanzioni in presenza di omissioni o dichiarazioni non corrispondenti al vero. “In questa prima fase di applicazione è previsto un approccio limitato per ridurre gli oneri delle imprese nella rendicontazione di sostenibilità, ma è plausibile che in futuro in fase di recepimento dei singoli Stati membri verranno introdotti obblighi più stringenti sul genere della certificazione esterna dei bilanci finanziari”, chiarisce Asmundo.

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Nella direttiva CSRD ci sono obblighi sottesi

L’assenza di un preciso sistema sanzionatorio potrebbe far storcere il naso a molti, ma Asmundo e Battiston concordano sul fatto che esistono già delle forti pressioni implicite a redigere correttamente i report di sostenibilità. “Poiché il regolamento NFDR è già operativo, gli istituti di credito hanno interesse a richiedere report di sostenibilità alle pmi perché possano conteggiare il prestito all’impresa come parte degli asset green. Quindi, a loro volta, le imprese hanno un incentivo a fare la reportistica perché troveranno più facilmente i finanziamenti dal settore bancario”, evidenzia Battiston.

C’è poi da considerare l’aspetto del rischio reputazionale, fa notare Asmundo. “Non rendicontare determinate informazioni o farlo in maniera mendace implica il rischio che il mercato se ne accorga, andando a influire negativamente sull’immagine dell’azienda e sulla fiducia tra i consumatori e i potenziali investitori, i quali probabilmente sceglieranno di acquistare prodotti o investire denaro nelle aziende che forniscono informazioni in maniera più dettagliata e affidabile”.

“È stata una scelta deliberata di Bruxelles”, spiega Battiston. “Invece di imporre obblighi tassativi, la Commissione europea ha scelto un approccio più soft, in cui i paletti sui vincoli ambientali ci sono in casi di conclamata pericolosità, mentre negli altri le informazioni sugli impatti delle attività economiche sono contenuti nei report di sostenibilità, con la speranza che consumatori e investitori privilegino chi ha impatti minori. Una scelta pragmatica – conclude Battiston – per evitare le resistenze dei settori industriali di tutti gli Stati membri”.

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Le proteste delle imprese sono ingiustificate

Ecco perché, secondo Battiston, sono ingiustificate le proteste delle imprenditrici e degli imprenditori che lamentano un ulteriore carico amministrativo e costi accessori per la raccolta dei dati e il reporting. “Il vero costo è per la comunità se le aziende inquinano e non rispettano i vincoli ambientali e sociali”, nota il professore di Finanza sostenibile. “Molti cittadini non sono più disposti a convivere con gli impatti negativi delle attività economiche perché influiscono direttamente sulla salute delle persone e sulla qualità della vita”.

Insomma, nella società di oggi è indispensabile tracciare e disincentivare le attività economiche più nocive. “Perciò fare reporting di sostenibilità non è un qualcosa imposto arbitrariamente da Bruxelles, ma è un elemento fondamentale del business delle aziende che vogliano rimanere competitive. Dotarsi di sistemi di monitoraggio e trattamento delle emissioni delle sostanze inquinanti, nonché della raccolta di dati digitalizzati, diventeranno per l’azienda dei normali costi operativi al pari di altri costi già percepiti dalle aziende come necessari inclusi quelli per il marketing, i macchinari e il personale”, precisa il professore di Finanza sostenibile.

“Chi non lo capisce – è il punto di vista di Battiston – e pensa di ridurre i costi risparmiando sulla sostenibilità, va in direzione opposta a quella della società e persegue una strategia miope. Chi, invece, tratterà con serietà il tema della sostenibilità, sarà avanti agli altri e avrà un vantaggio competitivo sulla concorrenza. Molti imprenditori, per fortuna, l’hanno capito e si muovono in questa direzione, aggiunge Asmundo. “Il report di sostenibilità diventerà uno strumento imprescindibile al pari del bilancio aziendale”, assicura.

Leggi anche: lo Speciale sulla finanza sostenibile

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