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venerdì, Marzo 29, 2024

EPR tessili, Unirau: “Partire dalla sussidiarietà e dalla filiera esistente”

Le osservazioni allo schema di decreto sull’EPR tessili dell’associazione che raggruppa le aziende e le cooperative della raccolta e valorizzazione della frazione tessile dei rifiuti urbani

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

Nell’immaginare un sistema per la gestione della responsabilità estesa del produttore (EPR) per i rifiuti tessili è preferibile un approccio sussidiario rispetto alla filiera esistente, una maggiore tutela del libero mercato, una particolare attenzione ai rischi legati all’introduzione massiva di centri per il riutilizzo. Ne sono convinte le aziende e le cooperative che svolgono le attività di raccolta e valorizzazione della frazione tessile dei rifiuti urbani riunite in Unirau, l’Unione delle imprese di raccolta riuso e riciclo dell’abbigliamento usato. Che hanno risposto all’appello del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (MASE) inviando le proprie osservazioni e le proprie proposte di emendamento allo schema di decreto sull’EPR tessili.

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Il principio di sussidiarietà

Un primo nutrito gruppo di emendamenti proposti da Unirau mira a coordinare il testo del ministero e le novità in esso contenute con la realtà della filiera della raccolta, selezione, riutilizzo dei rifiuti tessili già attiva da decenni in Italia. Una realtà di cui durante le fasi istruttorie del testo forse si è tenuto poco conto. Come se, nella gestione di questa tipologia di rifiuti, si partisse quasi da zero.

Per rimediare, Unirau propone di impostare il ragionamento partendo dalla sussidiarietà: “Il principio di sussidiarietà è essenziale ed è finalizzato a garantire che il sistema consortile intervenga solo nelle parti deboli della attuale filiera con efficacia ed efficienza. I segmenti della filiera che sono funzionali già oggi non necessitano di particolari interventi che andrebbero solo ad aumentare il peso del contributo ambientale sui consumatori”, leggiamo del documento inviato al ministero. Quando, ad esempio, si definiscono gli obblighi dei produttori (articolo 4, comma 2: “Farsi carico del finanziamento e della organizzazione della raccolta, dell’avvio a per il riutilizzo, riciclaggio, recupero dei rifiuti”), Unirau propone di aggiungere che questi obblighi dovranno essere espletati “con approccio sussidiario, con i Comuni o con i soggetti da essi delegati”. Insomma con quanti oggi già si occupano dei rifiuti tessili, con buoni risultati anche se con aspetti da migliorare. Altro esempio: la rete di raccolta. Secondo Unirau, piuttosto che chiedere a ciascun consorzio di realizzare una propria autonoma rete capillare, come sembrerebbe dalle prescrizioni del testo del MASE, sarebbe “molto più efficace, efficiente ed economicamente sostenibile” definire con un accordo di programma con i Comuni “le modalità di utilizzo e, se necessario, di implementazione della esistente rete di raccolta comunale”.

Il perimetro dell’EPR tessili: no ai rifiuti speciali

Tra le preoccupazioni di Unirau anche il riferimento (Articolo 4, comma 3) a rifiuti esterni al circuito degli urbani (“raccolta dei rifiuti tessili provenienti dalle attività non contemplate nell’Allegato L-quinquies del D.Lgs. n. 152/2006”). Un passaggio ambiguo, secondo Andrea Fluttero, presidente Unirau, che “potrebbe far pensare a raccolte selettive dei rifiuti urbani ma anche a rifiuti speciali”. Questo, chiarisce, “ci preoccupa perché, come è emerso da diversi position paper, alcuni produttori sono interessati ad intercettare anche i rifiuti speciali”. L’eco contributo pagato dal consumatore “deve invece essere finalizzato alla gestione del fine vita del prodotto finito. Deve essere finalizzato ad aumentare le raccolte e soprattutto a intervenire a sostegno del riciclo dei prodotti non avviabili a riutilizzo a valle della selezione. E non vorremmo invece che parte del contributo ambientale fosse in qualche modo usato anche per gestite scarti industriali, quindi rifiuti speciali”.

Leggi anche: Decreto EPR tessili, i dubbi della filiera

Puntualizzare gli obiettivi

Lo schema di decreto, come abbiamo visto,  prevede target progressivi da raggiungere: “Obiettivi di preparazione per il riutilizzo, riciclaggio e recupero dei rifiuti tessili” che entro il 2035 dovranno essere almeno il 50% in peso. Non vengono assegnate, però, priorità alle diverse modalità di gestione. Per questo Unirau propone che all’interno degli obiettivi fissati dal ministero (25% in peso entro il 2025, 40% entro il 2030 e 50% entro il 2035%) almeno il 40% sia preparazione per il riutilizzo e massimo un 20% recupero.

Secondo Unirau, l’anello debole della filiera sul quale è necessario investire il contributo ambientale del sistema dell’EPR per i rifiuti tessili è il riciclo, che come EconomiaCircolare.com ha raccontato, ha grandi sfide davanti a sé, soprattutto quando l’obbligo di raccolta del tessile sarà a pieno regime. “Il riuso – spiega l’associazione – è oggi abbondantemente presidiato prima che il prodotto diventi rifiuto: da app, donazioni e mercatini dell’usato. E dopo che lo stesso diventa rifiuto dal lavoro delle aziende della selezione con la preparazione per il riuso. Se si deve individuare una priorità, questa è nella difficile gestione della frazione non riusabile a valle della selezione, che dovrebbe essere avviata a riciclo e recupero alfine di ridurre al minimo lo smaltimento”.

Raccolte nei negozi e raccolte selettive

Lo schema di decreto prevede la raccolta, presso la distribuzione, di rifiuti “corrispondenti alle categorie dei prodotti tessili acquistabili presso il punto vendita” (articolo 12, comma 2). Questo limite, secondo Unirau, “disincentiverebbe l’utilizzo di questo strumento di conferimento da parte degli utenti in quanto li costringerebbe ad un eccessivo onere sociale a loro carico”. Secondo l’associazione si dovrebbe invece semplificare il più possibile la vita ai cittadini consumatori. I rifiuti portati nei negozi, poi, invece di essere ritirati dai Consorzi dei produttori (“al fine del loro trasporto ai centri comunali di raccolta territorialmente competenti”), dovrebbero rientrare tra i compiti dell’azienda incaricata dai Comuni per la raccolta differenziata della frazione tessile dei rifiuti urbani. Non due filiere diverse di raccolta, ma una sola, “per evitare l’aumento dei costi ed un eccessivo numero di passaggi che riduce la qualità delle raccolte”, evidenzia Il presidente di Unirau.

Lo schema di decreto parla anche (articolo4, comma 3, b) di raccolte selettive “al fine di incrementare la qualità delle frazioni tessili”. Secondo Unirau: “La selezione delle raccolte al fine di ottenere flussi omogenei per qualità e tipologia avviene da anni tramite gli impianti industriali delle aziende della selezione garantendo efficacia, efficienza ed economicità per economia di scala, impianti, manodopera specializzata e mercati di sbocco consolidati”. Una situazione che “garantisce risultati decisamente superiori rispetto a quanto ottenibile chiedendo ai cittadini di effettuare singolarmente una scelta qualitativa sui prodotti di cui intendono disfarsi”.

Leggi anche: EPR tessili, Corertex: “Migliorare il sistema, non rifondarlo”

Centri per il riutilizzo, sarebbero una soluzione efficace?

Secondo Unirau, i centri per il riutilizzo (che nel sistema di gestione del fine vita dei rifiuti tessili immaginato dal MASE hanno un ruolo importante), potrebbero costituire un problema per l’efficacia, l’efficienza e l’economicità del sistema stesso. I centri per il riutilizzo, sono, recita lo schema di decreto, “appositi spazi individuati presso i centri di raccolta per l’esposizione temporanea finalizzata allo scambio tra privati di beni usati e funzionanti direttamente idonei al riutilizzo”.

“Un impianto di selezione che tratta 5-10 mila tonnellate l’anno di rifiuti tessili –  riflette Fluttero – ha, nel trattare questi flussi, un’economia di scala, e dunque un’efficienza, molto superiore rispetto a quella che potrebbero avere centinaia di piccoli centri per il riutilizzo”. E poi, si domanda, quali capacità di selezione potranno avere gli operatori dei centri? Centri che, comunque, avranno come orizzonte un mercato locale, a differenza “dei grandi centri di selezione che si rivolgono a mercati nazionali e internazionali, e garantiscono quindi maggiori quantità potenziali da avviare a riutilizzo”.

Ai dubbi sui risultati dei centri per il riutilizzo, si affiancano, nelle osservazioni di Unirau, quelli sui problemi che questi centri potrebbero creare all’attuale filiera, quella rappresentata da Unirau. Potrebbero infatti “favorire un impoverimento della qualità del materiale da destinare all’impiantistica di selezione per la preparazione del riuso e recupero”, . La cosiddetta ‘crema’, cioè la parte migliore dei rifiuti, potrebbe – è l’ipotesi – essere cannibalizzata dalle esposizioni temporanee dei centri per il riutilizzo, togliendo valore ai rifiuti raccolti, la cui gestione si basa economicamente proprio sulla vendita della frazione riusabile e in particolare dei capi migliori. Il risultato, dunque, sarebbe una “conseguente rinuncia all’acquisto ed al successivo trattamento di tale frazione perché priva della qualità necessaria per mantenere i punti d’equilibrio economico delle operazioni di valorizzazione. Con il risultato di ridurre i quantitativi valorizzati (cioè venduti, n.d.r.) ed aumentare il recupero energetico e lo smaltimento con i relativi costi ambientali ed economici scaricati sul contributo ambientale, a tutto svantaggio dei consumatori”, sottolinea ancora Fluttero. Se oggi la vendita dei prodotti migliori copre anche i costi di gestione di quelli di qualità più bassa, domani – se passasse il decreto così com’è e se l’ipotesi di Unirau è fondata – quei costi andrebbero a pesare sul consumatore (cioè sul contributo ambientale).

Infine l’associazione teme anche che i rifiuti frutto della selezione effettuata nei centri per il riutilizzo rischiano di essere “difficilmente tracciabili” e “potenziali flussi d’innesco per abbandoni indiscriminati”.

Attenzione alle distorsioni del libero mercato

Laddove lo schema di decreto interviene su attività già oggi condotte in regime di libero mercato – come quando, all’articolo 7, si chiede ai produttori di implementare le attività di riuso tramite scambi e vendite nel mercato dell’usato, di promuovendo reti commerciali dell’usato o favorire la diffusione delle pratiche di sharing) – l’obiezione è il rischio di concorrenza sleale sostenuta coi fondi dell’eco contributo: “Si corre il rischio di generare un mercato parallelo finanziato dai contributi ambientali che andrebbe a creare una concorrenza sleale nei confronti degli operatori dell’usato già esistenti che attualmente gestiscono un commercio economicamente sostenibile”.

La governance del CORIT

Tema già sollevato da altri osservatori è quello della governance dei diversi soggetti che presiederanno all’EPR. Per il Centro di coordinamento per il riciclo dei tessili (CORIT), Unirau ritiene necessario prevedere la costituzione di un “Comitato di indirizzo” per aprire la struttura anche a soggetti diversi della filiera che non siano i soli produttori. Al Comitato, infatti, è il suggerimento dell’associazione, “partecipano le associazioni maggiormente rappresentative della filiera”. Queste presenze saranno necessarie per “acquisire informazioni tecniche ed organizzative necessarie ad operare in modo efficace”.

Inoltre il Centro di coordinamento dovrebbe essere sottoposto alla vigilanza e al controllo del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica.

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