Il Recovery Plan è un piano di investimenti basato su finanziamenti e prestiti per stimolare l’economia europea e supportare una forte trasformazione verso un modello economico sostenibile che deve tradursi in effetti di crescita del Pil già tra il 2022 e il 2026. Prestiti che dovranno essere spesi in fretta per avere gli effetti positivi attesi e bene per non fare debito cattivo.
Il Piano europeo è basato su tre “assi strategici” – digitale, verde, coesione sociale – e sei “missioni”, ed è accompagnato dalla raccomandazione che i piani nazionali siano completi di progetti cantierabili che inizino nel 2022 e si concludano entro il 2026 con una progressione di stati di avanzamento lavori che consentano l’erogazione delle coerenti tranche di finanziamento. Leggendo il Piano italiano di ripresa e resilienza (Pnrr) risulta molto difficile che questi obiettivi possano essere colti.
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Un piano non funzionale: ignora pubblica amministrazione e giustizia
L’attuale versione del Pnrr non è funzionale all’obiettivo posto per almeno tre ordini di motivi. Il primo è di sistema e riguarda il contesto ostile nel quale si dovranno realizzare gli investimenti. La Pubblica amministrazione e la giustizia non sono state riformate e nemmeno vi è un progetto chiaro nei contenuti e nei tempi per farlo. Senza questi due importanti interventi riformatori gli investimenti previsti resteranno fermi ai nastri di partenza o poco oltre: prova ne è il fatto che i fondi strutturali europei 2014-2020 sono stati rendicontati per appena il 30,6% proprio a causa del mal funzionamento di Pa e giustizia civile.
È quindi evidente che senza urgenti riforme di pubblica amministrazione e giustizia, qualora anche il Pnrr avesse contenuti di qualità, un indice di efficacia del 30,9% nella capacità di spesa di fondi europei applicato ai 209 miliardi del Recovery Fund porterebbe le risorse effettivamente investite tra 6 anni ad appena 62,7 miliardi.
Se l’obiettivo è riuscire a spendere l’ingente disponibilità assegnataci, è indispensabile rimuovere gli ostacoli ed evitare che i progetti possano essere condizionati da tempi non prevedibili, procedure incerte, decisioni arbitrarie e scarsa capacità amministrativa. La soluzione a questo problema non si trova né nel decreto Semplificazioni, che spesso ha complicato le procedure, né nella sola digitalizzazione citata come un mantra. Una procedura contorta resta contorta anche passando dalla carta al digitale.
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Non ci sono progetti davvero cantierabili
Un secondo aspetto critico riguarda l’assenza o la scarsa presenza di progetti davvero cantierabili. Se anche fossero risolti i problemi prima descritti, ci troveremmo nell’impossibiltà di spendere le risorse nei tempi previsti perché gli scenari disegnati nel piano sono spesso basati su tecnologie di grande appeal ma ancora immature per poter generare progetti cantierabili. Un esempio per tutti quello dell’idrogeno verde, prospettiva interessante ma ancora lontana dalla maturità industriale.
Un piano fermo all’economia lineare
Per il terzo aspetto critico entro nel merito di quanto previsto per l’economia circolare. La “rivoluzione verde” si basa su due pilastri: da un lato la produzione rinnovabile dell’energia e il suo uso efficiente, parallelamente la produzione di materie prime rinnovabili e da riciclo e il loro uso efficiente. Questo secondo pilastro si concretizza con un cambiamento profondo del modello economico da lineare a circolare e coinvolge tutti gli anelli della catena del valore, dall’ecoprogettazione, alla logistica, ai modelli di consumo, alla gestione del post consumo con il riuso ed il riciclo di qualità.
Entrando nel merito, alla scheda Componente M2C1 troviamo la componente “Impresa verde ed Economia circolare” e tra gli obiettivi quelli di voler incrementare il riciclo ed “implementare il paradigma dell’economia circolare”, aumentando l’energia prodotta da rifiuti. Chi ha scritto questo testo è fermo all’economia lineare e dimostra di non aver compreso né che l’economia circolare è la revisione di tutti gli anelli della catena del valore, dall’ecoprogettazione, alla produzione, al consumo, al riuso e al riciclo, né che la produzione di energia nella gerarchia europea della gestione dei rifiuti viene solo dopo e in subordine al recupero di materia. Il sistema circolare ha sì bisogno di recupero energetico, ma solo per le frazioni negative derivanti dalle attività di riciclo.
La scheda citata, al punto 1, affronta il tema delle riforme illustrando due linee di intervento:
a) “Definire la Strategia nazionale per l’economia circolare: (…) per migliorare la riduzione dell’uso di materie prime non rinnovabili, la prevenzione della produzione di rifiuti, il riutilizzo e il riciclaggio dei rifiuti, (…) sistemi di tracciabilità dei flussi di materiali, innovazione tecnologica, (…) buone pratiche, (…) sinergia tra i settori pubblico e privato; pianificare le infrastrutture per i rifiuti”.
b)“(…) sistema di tracciabilità, (…) processi amministrativi più tempestivi e omogenei, (…) semplificazione amministrativa, garantire un periodo preliminare di sperimentazione, (…) digitalizzazione dei sistemi aziendali, (…) tracciabilità dei flussi di materiali (…) contrastare il dumping ambientale”.
Anche da queste righe traspare la visione “lineare” di chi scrive, tutta incentrata sul tema rifiuti e senza riferimenti agli altri anelli della catena del valore, dall’ecoprogettazione in avanti. Il tutto condito da grandi dosi di digitalizzazione e tracciabilità, come se digitalizzare e tracciare sistemi bloccati o inefficienti li sbloccasse e li rendesse efficienti.
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La necessità di riforme efficaci
Il Recovery Plan europeo per poter dispiegare i suoi effetti ha bisogno di riforme efficaci, senza le quali non cambierà la situazione attuale di enorme difficoltà per realizzare gli investimenti. Nello specifico, per favorire la transizione del modello economico da lineare a circolare abbiamo bisogno di riforme che garantiscano obblighi di ecoprogettazione dei beni nuovi immessi sul mercato, coinvolgimento delle reti vendita nella logistica di ritorno, compreso l’e-commerce, semplificazioni delle procedure amministrative e di controllo basate sul principio partecipativo tra aziende ed enti di controllo, autocertificazioni, certezza dei tempi. Serve una normativa End of waste semplice e basata su procedure certificate dalle aziende, in grado di garantire il rispetto di standard di sicurezza e qualità delle materie prime seconde in linea con quelli richiesti per la materie prime vergini. Ancora, c’è bisogno di politiche fiscali che agevolino la presenza di materiali riciclati nei prodotti nuovi e di norme che garantiscano la precedenza nello smaltimento delle frazioni negative derivanti dalle operazioni di riciclo.
Nulla o quasi di tutto questo i trova nella descrizione delle riforme previste nel piano.
Per quanto riguarda l’allocazione delle risorse, al punto 2 (Economia circolare e gestione dei rifiuti) le risorse sono destinate per 1,26 miliardi alla “realizzazione di nuovi impianti e ammodernamento degli impianti esistenti”, quindi a carenze impiantistiche per la gestione dei rifiuti nel modello lineare ad oggi esistente. Infatti si legge: “Sono previsti investimenti volti ad affrontare situazioni di particolare criticità nella gestione dei rifiuti nelle grandi aree metropolitane del Centro e Sud Italia e non solo (ad esempio Città metropolitane di Roma Capitale, di Napoli e di Palermo).
Non c’è un cambio di paradigma
Gli investimenti previsti si completano con un elenco di attività da finanziare tra le quali “Azioni comunicative per incrementare la raccolta differenziata e promozione dei centri di raccolta e riuso, adeguamento degli impianti esistenti, incremento raccolta differenziata, riduzione dello smaltimento in discarica ed investimenti per la conversione del biogas da discarica per la produzione di bio-metano da impiegare nei trasporti”. Per la maggior parte interventi tesi a recuperare ritardi decennali della normale gestione rifiuti in un modello lineare. Nulla o poco per una robusta spinta necessaria a sostenere la transizione verso l’economia circolare.
Con parte degli stessi 1,26 miliardi si legge che occorrerà “incrementare la raccolta ed il recupero dei Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (RAEE), la chiusura del ciclo di gestione dei fanghi di depurazione prodotti dal trattamento delle acque reflue urbane e la realizzazione di poli di trattamento per il recupero dei rifiuti prodotti da grandi utenze (porti, aeroporti, ospedali, plessi scolastici, ecc.)”. Tutte, o quasi, cose meritevoli ed utili a migliorare un modello lineare, ma non inquadrate all’interno di una visione circolare dell’intero sistema di progettazione, produzione e consumo.
Con gli 0,54 miliardi previsti al punto 2.2 (progetto economia circolare e chimica sostenibile), il piano propone lo “sviluppo di una soluzione tecnologica di riciclo chimico, per ricavare prodotti chimici e carburanti circolari da rifiuti plastici e frazione secca dei rifiuti urbani e la realizzazione di 4 impianti waste to fuel”; quindi, a parte la curiosa invenzione della definizione di “carburanti circolari“, parliamo sempre di energia e non materia prima da rifiuti. Si termina l’elenco degli investimenti con 2 impianti con “nome e cognome”: un impianto di riciclo chimico a Mantova ed una bioraffineria integrata per bioetanolo bioplastica e lignina a Crescentino/Vercelli, peraltro in parte già esistente.
Infine con 1,35 miliardi troviamo “progetti decarbonizzazione con tecnologie CCUS” ovvero cattura della CO2 in atmosfera e stoccaggio nei giacimenti vuoti di metano, nulla a che vedere con l’economia circolare, mentre con gli ultimi 1,35 miliardi la realizzazione di “progetti per la produzione di combustibili alternativi e/o biopolimeri”, per la serie “varie ed eventuali”.
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Economia circolare poca e solo per essere alla moda
Non manca qualche spruzzata qua e là di economia circolare tanto per essere alla moda. Emblematica la scheda 4.3 (Piano aree sisma) dove si legge: “Centri di ricerca di livello internazionale avviati sulle tecniche della ricostruzione, l’economia circolare, la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali e la ricerca nel settore agroalimentare.”
Ti si apre il cuore quando leggi al punto 1.1.4: Sviluppo del biometano, secondo criteri di promozione dell’economia circolare, e pensi per un attimo che ci siano le misure per chiudere il ciclo della frazione organica dei rifiuti domestici, dove almeno 5 milioni di tonnellata all’anno di frazione umida vengono sprecate per la mancanza di una diffusa rete di impianti di digestione anaerobica per la produzione di biometano verde ed ammendante per ricaricare i terreni agricoli impoveriti da decenni di chimica. Poi la cocente delusione. Non essendoci più incentivi per la vendita di energia elettrica prodotta dagli impianti a biogas realizzati negli anni passati da imprese agricole (che anziché produrre food di qualità si erano trasformate in imprese di produzione di energia elettrica con apposite coltivazioni dedicate) si finanzia la loro trasformazione in impianti di produzione di biometano incentivato, sempre da produzioni agricole dedicate anziché da frazione organica di rifiuti domestici.
Senza una visione
In conclusione, mancano la riforma della Pubblica amministrazione e della giustizia, senza le quali anche i progetti figli di una lucida visione del percorso da compiere per passare dal modello di economia lineare a quello circolare sarebbero fortemente frenati, ma manca anche la lucida visione e di conseguenza i progetti coerenti. In realtà anche i progetti incoerenti elencati nel piano sono in gran parte lontani dall’essere cantierabili.
Davvero un peccato non riuscire a utilizzare in modo efficace una opportunità come quella rappresentata dal Recovery plan europeo.
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