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sabato, Maggio 18, 2024

“Ecco le strategie per rendere un business circolare”. Il report dell’Eea

L’Agenzia europea dell'ambiente (Eea), ha identificato l’economia circolare come un obiettivo chiave del Green Deal e della ripresa economica. Anche le grandi aziende hanno capito che i nuovi modelli di business devono prevedere la circolarità, come nel caso della moda

Martina Di Pirro
Martina Di Pirro
Giornalista freelance ed esperta in strategie digitali. Ha lavorato per il Ministero degli Affari Esteri, il Parlamento europeo, la Camera dei deputati, aziende ed enti nazionali ed internazionali. Nel 2020 ha vinto il Premio per il giornalismo investigativo e sociale della ong Mani Tese sul ciclo dei rifiuti tessili in Africa. Autrice dei libri "La geografia della speranza" (Edizioni Gruppo Abele) e “Rwanda, i giorni dell’oblio” (Round Robin Editrice)

Modelli di business aziendali più sostenibili per consentire il riutilizzo di materiali e di prodotti e garantirne la permanenza nel mercato più a lungo possibile. Per l’Agenzia Europea dell’Ambiente (European Environment Agency, Eea), questa è la chiave per superare il modello tradizionale dell’usa e getta senza perdite economiche per le imprese che decidono di convertirsi all’economia circolare. Nella nota pubblicata a fine gennaio, “A framework for enabling circular business models in Europe”, l’Agenzia europea identifica l’economia circolare come un tema politico prioritario in Europa, oltre che un obiettivo chiave del Green New Deal. “Il raggiungimento degli obiettivi dell’economia circolare, ad esempio riutilizzo, riparazione, riciclaggio, richiede innovazione nel tipo di modello di business utilizzato, innovazione tecnologica e innovazione sociale, e quindi anche nuovi modi di interagire o connettere aziende e persone” si legge nella nota dell’Eea.

Strategie circolari 

L’Agenzia dà alcuni suggerimenti per implementare e migliorare i modelli di business circolari su vasta scala: serve un mix di innovazione tecnologica e sociale, di nuove soluzioni e processi, di nuovi comportamenti individuali e collettivi per un miglior utilizzo delle risorse. Un ruolo chiave è ovviamente affidato ai decisori politici, definiti “attivatori” per il loro compito di “supportare l’innovazione del modello di business fornendo leggi e regolamenti adeguati, sostegno finanziario, incentivi economici e altre politiche”.

Alcune misure già introdotte a livello europeo vanno già in questa direzione. Ad esempio, con la direttiva sulla progettazione ecocompatibile, la cosiddetta direttiva Ecodesign, il Parlamento europeo ha stabilito che, a partire da quest’anno, i pezzi di ricambio per aggiustare un elettrodomestico messo in commercio dovranno essere reperibili per almeno sette anni (con alcune parti di frigoriferi, lavastoviglie e lavatrici estese a 10 anni minimo) dalla data d’acquisto e in generale fino allo stesso numero di anni dopo la fine della produzione di quel modello. L80% dell’inquinamento e il 90% dei costi di produzione sono il risultato di decisioni assunte nello stadio di progettazione del prodotto. Se le aziende riflettono sulla riduzione degli impatti fin dalla fase di progettazione, miglioreranno sia la qualità del prodotto sia le sue performance ambientali “dalla culla alla culla”, vale a dire anche dopo il suo fine vita.

Altro elemento necessario accanto alle politiche è la sensibilizzazione dei consumatori, la loro educazione e il cambiamento dei comportamenti. Ciascuno di noi con le proprie scelte può supportare o al contrario ostacolare i modelli circolari: una corretta informazione sugli impatti e sulle potenzialità di prodotti e servizi circolari, insieme a un atteggiamento costantemente critico, può fare la differenza.

Allungare la vita dei prodotti

Dopo l’ecoprogettazione e la produzione, la realizzazione degli obiettivi circolari avviene anche nella fase dell’utilizzo del prodotto. Un utilizzo più longevo, l’affermazione concreta del diritto alla riparazione, il passaggio dalla proprietà a pratiche incentrate sull’accesso, anche in condivisione, sono tutti elementi che contribuiscono a definire il concetto di circolarità. La fase del fine vita, poi, “è fondamentale per consentire il riutilizzo e la rigenerazione”: il report dell’Eea evoca la necessità di un sistema di raccolta che garantisca la possibilità di riutilizzare i prodotti e loro parti, anche incentivando con sconti la restituzione dei prodotti vecchi. Accendere i riflettori sulla logistica di ritorno, con il coinvolgimento dei rivenditori, significa poter effettivamente ridare valore ai prodotti a fine vita. Più saranno potenziati questi processi e più si ridimensionerà il peso degli step successivi, quando il prodotto diventa rifiuto: riciclaggio, recupero energetico e smaltimento. “Oltre all’innovazione aziendale – aggiunge l’Eea -, sono necessarie anche innovazioni tecniche e sociali. Misure politiche come il divieto di sostanze potenzialmente pericolose o misure economiche che influenzino la domanda del materiale nella catena del valore (ad esempio regimi di responsabilità estesa del produttore, standard di prodotto), possono costituire un importante fattore di cambiamento”.

La circolarità nel tessile

L’Agenzia Europea dell’Ambiente ha poi utilizzato il settore tessile come caso studio per approfondire le caratteristiche e potenzialità di un modello di business circolare. L’attenzione del report è rivolta a quattro diversi modelli:
longevità: vendita di prodotti più duraturi, ad esempio usando materiali robusti e di alta qualità e un design che ne consente la riparazione;
accesso: soluzioni di utilizzo basate su noleggio e leasing (business-to-business e business-to-consumer) o sulla condivisione (principalmente consumer-to-consumer): i prodotti tessili rimangono di proprietà dell’azienda che gestisce il sistema, mentre il cliente paga per avervi accesso;
raccolta e rivendita: modelli di business legati alla rivendita, concentrandosi sull’estensione della vita utile dei tessuti oltre il primo utente;
riciclaggio e riutilizzo: questo modello si concentra sulla chiusura del ciclo per i tessili, trasformando i rifiuti tessili in materie prime per nuove catene di produzione.

Un settore chiave per la transizione

Il settore della moda è tra i maggiori produttori di gas serra al mondo, principalmente a causa del modello economico della “moda veloce”, la cosiddetta fast fashion che ha reso ci capi di abbigliamento beni deperibili da gettare via dopo un breve utilizzo. Difficile dire quanti inquini a livello globale, ma certo è che lo fa, al punto chel’Europa è costa ai ripari mettendo a punto una Strategia in materia di prodotti tessili sostenibili. In un articolo firmato da Alden Wicker su Racked, intitolato “We Have No Idea How Bad Fashion Actually Is for the Environment. But it’s definitely not good” (Non abbiamo idea di quanto la moda sia dannosa per l’ambiente. Ma di sicuro non gli fa bene), si dibatteva su quanto il fashion business potrebbe davvero essere la seconda industria più inquinante del pianeta.

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“I tessili svolgono un ruolo importante nell’industria manifatturiera europea, impiegando 1,7 milioni di persone e generando un fatturato di 178 miliardi di euro solo nel 2018”, ricorda l’Agenzia Europea dell’Ambiente. Non a caso, il Circular Economy Action Plan della Commissione europea riconosce il settore tessile come una catena del valore del prodotto prioritario a causa del suo elevato utilizzo di risorse (materiali, acqua, terra e sostanze chimiche), delle emissioni di gas serra e della produzione di rifiuti. Proprio in virtù di queste considerazioni, l’Eea nel 2019 aveva già parlato della questione nel briefing Textiles in Europe’s circular economy evidenziando come il passaggio a un sistema tessile sostenibile e circolare richiedesse un cambiamento sistemico che coinvolgesse metodi di produzione innovativi, modelli di business circolari, comportamenti più sostenibili, misure politiche di supporto e istruzione in tutte le fasi della catena del valore.

Rendere conveniente la chiusura del cerchio

Attualmente, il raggiungimento di questi obiettivi nel settore della moda è ancora molto lontano. Progettare e produrre diversamente, comprare meno e comprare meglio, oppure riciclare e comprare di seconda mano, sono ancora condotte di nicchia, ma che lentamente si stanno affermando. L’informazione del consumatore, ancora una volta, gioca un ruolo chiave. Aumenta il numero di persone che cercano valutazioni sull’etica e la sostenibilità dei brand, sia per quanto riguarda i materiali utilizzati che per l’impatto ambientale e il tema dei lavoratori. I materiali, il design del prodotto e la distribuzione/rete di vendita sono i principali focus della circolarità della moda.

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Questo modello, fa notare l’Agenzia, pone l’accento sulla chiusura del ciclo nel settore tessile, trasformando gli scarti in materie prime per nuove catene di produzione, rendendo conveniente per tutti il passaggio a modelli di business circolari, con un impatto positivo sull’ambiente e sulla tutela dei diritti fondamentali. Su questa linea si muove non a caso anche il nuovo Action plan sull’economia circolare votato dall’Europarlamento in plenaria il 9 febbraio. L’Europa pare intenzionata a mettere in campo gli strumenti normativi e le risorse necessari a favorire una nuova visione: i tempi e i modi dell’applicazione concreta di questo modello decreteranno o meno il suo successo.

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