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sabato, Maggio 18, 2024

“Plastica? Il riciclo non può essere l’unica soluzione”. A colloquio con Giuseppe Ungherese

È appena arrivato in libreria “Non tutto il mare è perduto”, libro di denuncia e di proposta scritto dal responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. Ne parliamo con l'autore toccando temi come la plastic tax, il deposito su cauzione, l'attuale modello di svilluppo

Daniele Di Stefano
Daniele Di Stefano
Giornalista ambientale, un passato nell’associazionismo e nella ricerca non profit, collabora con diverse testate

Un libro di inchiesta e denuncia contro l’abuso della plastica, contro l’inquinamento che ne deriva e sembra ormai incontenibile, contro i gravi danni alla salute dell’uomo e della vita su questo Pianeta. Ma anche un viaggio di scoperta in alcuni dei paradisi naturali del nostro Paese, come le Tremiti, il Santuario Pelagos, Capraia. E un libro di proposte, che indica alcune strategie, già in campo, da utilizzare per provare a fermare questo devastante tsunami. Si intitola “Non tutto il mare è perduto” (Casti Editore) e a firmalo è Giuseppe Ungherese, già ricercatore universitario (un dottorato in Ecologia), dal 2015 responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. Approfittiamo dell’arrivo in libreria del volume per affrontare con lui alcune questioni d’attualità.

Giuseppe Ungherese, il suo libro parla di plastica (e di tanto altro). Quando, con Natta, la plastica si impone in Italia e nel mondo, viene percepita come “il materiale delle meraviglie”. Oggi le cose sono cambiate, e a ragione. Ma quello che ormai è a tutti gli effetti uno stigma sociale, non rischia di peggiorare le cose? Ormai vediamo anche “l’acqua del sindaco” impacchettata in brick che solo in parte vengono riciclati….

Questa è una delle trappole da evitare. Purtroppo, la narrazione italiana intorno al “Plastic free” ha prodotto diverse storture che spinge aziende e decisori politici a perseguire la logica di ciò che viene ritenuto meno peggio e che consente di perseverare col monouso. Bisogna essere consapevoli che viviamo in un Pianeta con risorse limitate e che la riduzione degli impatti ambientali non si raggiunge spostando il problema da un materiale all’altro. È necessario ridurre i consumi, a partire dalle applicazioni spesso inutili e superflue, incentivando una vera economia circolare che parta dalla prevenzione e dal riuso, facendo durare il più a lungo i prodotti, e di conseguenza le materie prime, indipendentemente dai materiali che li costituiscono.

Nel volume definisce il riciclo della plastica “un mito”. Perché? Cosa dovremmo fare con la plastica se non riciclarla?

Questo è il cuore del problema. Purtroppo, i numeri del riciclo sono impietosi e non possiamo continuare a credere che possa essere l’unica soluzione per gestire volumi crescenti di rifiuti. Le percentuali possono certamente migliorare, ma ci vorranno ancora troppi anni. Nel frattempo, bisogna mettere in atto con urgenza un mosaico di soluzioni come, ad esempio, migliorare il design dei prodotti, ridurne la complessità, affinché diventino realmente riciclabili. È necessario inoltre creare le condizioni economiche affinché si concretizzi un fiorente mercato delle materie prime seconde e introdurre politiche serie di riduzione a monte favorendo opzioni riutilizzabili. E poi è doveroso invertire il più importante paradosso: la plastica, materiale durevole e resistente, non può continuare ad essere usata, in modo preponderante, per l’usa e getta.

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La plastica, racconta, è uno di quegli esempi in cui le imprese scaricano le responsabilità dell’inquinamento sui consumatori. Sulla responsabilità di molte aziende non ci sono dubbi, ma non abbiamo anche noi consumatori una quota di responsabilità?

Ognuno di noi ha il dovere di assolvere al suo dovere civico e fare una corretta raccolta differenziata. Certo è che non può essere solo colpa nostra se buona parte di ciò che raccogliamo e separiamo correttamente tra le mura domestiche non trova una seconda vita. Le cause di ciò vanno cercate altrove e non solo nel singolo come ci vogliono far credere le aziende da più di mezzo secolo.

Una delle cause della diffusione globale delle microplastiche, come racconta citando diversi studi scientifici, è il fast fashion, con collezioni sempre più numerose durante l’anno. Cosa dovrebbero fare le imprese, la politica e cosa dovremmo fare noi consumatori?

La moda usa e getta è uno degli altri modelli di business e consumo voraci di materie prime su cui bisogna intervenire con urgenza. Non possiamo continuare a consumare preziose risorse naturali con questi ritmi, consapevoli del fatto che una percentuale irrisoria degli abiti oggi viene riciclata a fine vita. Il nuovo pacchetto europeo sul Green Deal volto a rendere i prodotti sostenibili a mio avviso va nella direzione giusta, anche se non sono al momento disponibili tutte le soluzioni che consentano di ricondurre il settore del tessile sui binari di una completa sostenibilità.

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Saluta la direttiva SUP sulla plastica monouso come un traguardo, anche dalla politica. Che ne pensa del recepimento italiano e del rischio infrazione di cui si è parlato?

A livello comunitario la politica è stata ammirevole nel far approvare la direttiva in tempi estremamente veloci, sinonimo del fatto che quando si creano le condizioni giuste nessun traguardo normativo diventa irraggiungibile. Servirebbe più coraggio da parte della politica, e mi piacerebbe non vedere più il solito gioco dei compromessi al ribasso come avvenuto nel recepimento italiano della SUP: una soluzione, quella adottata dal nostro Paese, in cui rischiamo di perdere tutti.

La legge comunitaria sulle plastiche monouso è certamente un passo importante ma non risolutivo. Mancano interventi efficaci sul packaging che mi auguro verranno inseriti nella revisione della direttiva europea sulla riduzione dei rifiuti da imballaggi che verrà presentata nei prossimi mesi.

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Nelle pagine di “Non tutto il mare è perduto” ci sono denunce ma anche soluzioni possibili e già percorribili. Una di queste è il deposito su cauzione, su cui questo magazine ha scritto spesso, facendo anche appello al ministro Cingolani. L’Italia ha finalmente approvato una legge per istituirlo ma manca ancora il relativo decreto attuativo. Che ne pensa?

In Italia, una delle nazioni che consuma le maggiori quantità di bottiglie in plastica per le bevande, un efficace sistema di deposito su cauzione dovrebbe essere vigente da anni. Mi auguro che i ministeri competenti redigano il decreto attuativo in tempi brevi estendendolo però a tutti i contenitori per liquidi alimentari, anche quelli in metallo e altri materiali, e introducendo un obbligo per quote crescenti di imballaggi riutilizzabili come ha fatto recentemente l’Austria. Con un efficace sistema a regime, si può facilmente ricorrere a imballaggi riutilizzabili che, come evidenziano numerose ricerche internazionali, nella stragrande maggioranza dei casi risultano le opzioni meno impattanti.

Leggendo il suo libro la plastica appare un po’ come l’epicentro di una serie di guasti che colpiscono il Pianeta e l’umanità. Il clima, ad esempio. Cosa c’entra il clima con la plastica?

Considerando che quasi la totalità delle plastiche deriva dalla trasformazione dei più comuni combustibili fossili, non sorprende il suo stretto legame col cambiamento climatico. Forse se il suo colore fosse nero petrolio avremmo meno difficoltà a paragonare i rifiuti dispersi nell’ambiente a uno sversamento di combustibili fossili. Oggi la produzione globale di plastica è il quinto/sesto Stato per emissioni di gas serra e le previsioni più accreditate non promettono un’inversione di rotta nelle prossime decadi. Tant’è che numerose indagini evidenziano come le major dei combustibili fossili vedono nella plastica l’àncora di salvezza per continuare a perpetuare il loro modello di business basato sullo sfruttamento di petrolio e gas fossile.

Nel volume tocca anche il tema dell’attuale modello di sviluppo. Economia circolare sta affrontando la questione della crescita economica e dei sui affetti sulla biosfera: molti studiosi, da ultimo Francesco Vona, pensano che il capitalismo e la ricerca di una crescita senza limite non consentano all’uomo di restare entro i limiti del “tetto ecologico” del Pianeta. Che ne pensa?

Viviamo in un momento storico in cui tutti i nodi ambientali vengono al pettine. Sono riconducibili a un modello di sviluppo, non solo per la plastica, che ha palesato tutti i suoi limiti e le sue fragilità. Nonostante ciò, continuiamo a perseguire la crescita economica infinita, costi quel che costi, ignorando i limiti planetari: gli unici entro i quali sarebbe opportuno confinare il nostro raggio d’azione per poter continuare a prosperare come specie sulla Terra. Non possiamo continuare così, è ormai evidente.

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Quando racconta i guasti planetari legati all’abuso della plastica riflette anche sul tema del “colonialismo dei rifiuti”, toccando argomenti come ingiustizie, sfruttamento, diritti umani. Perché secondo lei la plastica si porta dietro tutto questo?

La questione non è limitata solo alla plastica ma può essere estesa a tutte quelle produzioni altamente impattanti. Se ci fermiamo a riflettere, nel mondo troviamo aree con una notevole prosperità il cui benessere si deve alla contemporanea presenza di comunità di scarto situate a notevole distanza. Nelle grandi città, spesso pulite e ordinate, è raro imbattersi in inceneritori, discariche, petrolchimici o aziende chimiche. Queste tipologie di insediamenti si trovano nelle aree più periferiche, laddove vivono le comunità più emarginate e spesso più povere. Lo stesso fenomeno che si verifica per le comunità del Sud del mondo inondate da quantità crescenti di rifiuti in plastica occidentali: un fenomeno che acuisce le ingiustizie sociali e ambientali.

La Commissione europea, a questo riguardo, ha proposto una revisione delle regole per l’export dei rifiuti. Che idea si è fatto?

Spesso vengono spediti all’estero rifiuti per “presunto” riciclo e, per giunta, la storia ci insegna che al crescere dei loro spostamenti dall’area di produzione aumentano le illegalità, di qualsiasi tipologia. I rifiuti dovrebbero essere smaltiti secondo un criterio di prossimità e mi auguro che l’Europa imponga regole ferree affinché i singoli Stati siano obbligati a farsi carico, integralmente, dello smaltimento dei propri scarti. Tale approccio potrebbe rivelarsi un concreto incentivo a ridurne la produzione a monte per tutte quelle tipologie che sono difficilmente riciclabili.

L’Italia ha rimandato ancora l’entrata in vigore della plastic tax. Qualcuno ci vede del dolo. Lei che ne pensa?

Su questa felice intuizione italiana i numerosi rinvii a cui abbiamo assistito negli anni sono la cartina di tornasole perfetta per misurare il potere delle lobby. A mio avviso però c’è un aspetto su cui mi auguro si possa avere un indirizzo chiaro da parte di chi ci governa: per rendere la plastic tax efficace è necessario che i proventi ottenuti siano utilizzati integralmente per premiare quelle industrie che cambiano il loro modello di business in favore di sistemi basati sullo sfuso e sulla ricarica e che permettono di ridurre a monte la produzione di scarti da avviare a riciclo. La tassa così congeniata potrebbe diventare un volano per cambiare i modelli economici più problematici e ridurne gli impatti per il beneficio di tutti.

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